In questi giorni si sente spesso citare la didattica “flipped” ma sembra esserci ancora molta confusione sul significato del termine.
Visto che si tratta di uno strumento molto potente a disposizione dei docenti (utilizzabile in ogni ordine e grado di scuola) soprattutto in situazioni come questa in cui non possiamo interagire coi ragazzi nella maniera continuativa (a cui eravamo abituati con la lezione in presenza) proviamo a mettere a fuoco il tema.
Intanto l’espressione “flipped” (da cui flipped lesson o flipped classroom) fa riferimento all’azione di ribaltare. È lecito – e didatticamente corretto – chiedersi allora cosa ribaltiamo e rispetto a cosa?
Se osserviamo la didattica tradizionale appare evidente quello che descriveva Tullio De Mauro nel lontano 2012
In molti paesi una sacra trinità ha presieduto da secoli alla vita della scuola: 1) silente ascolto in classe della lezione dell’insegnante che tra cattedra e lavagna racconta quel che nel libro è già scritto; 2) a casa studio (del libro) ed esercizi di applicazione dello studio; 3) di nuovo in classe, interrogazioni “alla cattedra” per verificare lo studio del libro.
da La scuola capovolta su Internazionale del 22 novembre 2012
Ecco, la didattica flipped cerca di scardinare questa “sacra trinità” ma come lo si può fare?
Sul sito del Ministero dell’Istruzione nel settore dedicato alla didattica a distanza per l’emergenza coronavirus in una presentazione viene descritta così
L’idea-base della «flipped classroom» è che la lezione diventa compito a casa, attraverso l’utilizzo di video e altre risorse digitali come contenuti da studiare. All’interno della classe invece, gli studenti sperimentano, collaborano e svolgono attività laboratoriali.
https://www.istruzione.it/coronavirus/allegati/esperienze_didattica-a-distanza.pdf
C’è già un cambiamento ma è molto limitato. Lo studio a casa è stato anticipato ma non cambiano i termini con cui si descrivono le attività: lezione e compito a casa. Resta infatti la passività tipica dell’impostazione tradizionale della trasmissione del sapere.
Ecco come Graziano Cecchinato ci descrive il nocciolo fondamentale che caratterizza la didattica flipped:
Gli studenti sono quindi chiamati in primo luogo a comprendere attraverso l’ascolto quel che viene verbalmente trasmesso. Questa modalità è stata ampiamente criticata dalla ricerca educativa perché viene accusata, in sostanza, di “uccidere” la spontanea pulsione a scoprire insita nella natura umana. In questo modo la scuola fornisce risposte a domande inespresse dagli studenti (e a volte, per alcuni, premature), alterando il naturale processo di apprendimento. Quest’ultima, parte normalmente dal bisogno di risolvere un problema, dal soddisfare una curiosità, dal perseguire un interesse che sorge spontaneamente negli studenti o che può essere loro sollecitato. Questa pulsione (autonoma o indotta dall’insegnante) li motiva a impegnarsi per trovare soluzioni, escogitare interpretazioni, formulare spiegazioni e, attraverso questi processi, “imparare”. Fornire, invece, conoscenze preconfezionate senza dare agli studenti la possibilità di mettersi alla prova svolgendo un personale percorso di conoscenza significa, come sosteneva il premio Nobel per la Fisica Richard Feynman, privarli di un’esperienza formativa fondamentale che è connaturata allo sviluppo scientifico e culturale: “convivere con l’ignoranza, il dubbio, l’incertezza”.
G. Cecchinato, R. Papa, Flipped Classroom. Un nuovo modo di insegnare e di apprendere, UTET 2016, pp. 23-24
Appare evidente che non si tratta solo di spostare la lezione prima o dopo lo studio. Si tratta di cambiare il modo in cui si concepisce il processo di apprendimento. Si tratta di far emergere il tema della motivazione all’apprendimento che è il modo con cui lo si rende attivo e bello (ripensiamo a come lavoravano – solo per fare due esempi – Alberto Manzi e Mario Lodi).
Si tratta, come dice ancora Cecchinato di passare da un paradigma deduttivo (prima ti insegno la regola generale poi scendiamo nei particolari) a uno induttivo (siamo di fronte a un fenomeno e ci lavoriamo allargando man mano l’orizzonte). Se ci riflettiamo il metodo scientifico procede in modo induttivo ma come possiamo insegnare questo metodo di lavoro ai ragazzi se tutti i gironi li abituiamo a fare il contrario?
Se passare alla didattica flipped non comporta anche abbandonare la didattica puramente trasmissiva (noi adulti sappiamo già tutto e te lo raccontiamo) per passare a una didattica che si basa su ricerca e scoperta (o ri-scoperta) forse è meglio lasciare perdere. Non illudiamoci (e non illudiamo ragazzi e genitori) di essere innovativi, perché così non è vera innovazione, è solo un po’ di maquillage.
Qualcuno potrebbe chiedersi, a questo punto: ma così i ragazzi non perdono tempo a “scoprire l’acqua calda”? Se nel mondo reale “scoprire l’acqua calda” è un termine denigratorio per indicare una perdita di tempo, nel campo dell’apprendimento è una strategia didattica potente. Quello che imparo al termine di un processo di ricerca e scoperta si fissa molto meglio (e in maniere più duratura) nel mio cervello rispetto a quello che ho letto (o mi hanno raccontato) e ho studiato a memoria solo per essere in grado di ripeterlo. Ricercare e sperimentare chiede di fare, di lavorare con la realtà e quindi permette al nostro cervello di attivare il modo percettivo-motorio (rispetto al simbolico-ricostruttivo che usiamo per decodificare un testo) che, come ci ricorda lo psicologo Antinucci è più antico e profondo (nella storia dell’evoluzione del cervello umano) e quindi richiede anche minore fatica.
Allora flipped vuol dire lanciare una sfida (dando ovviamente anche le eventuali coordinate utili – non è un esercizio di sadismo), dare il tempo di lavorare attorno a questa sfida e poi rimettere in ordine i pezzi (come in un grande puzzle di scoperte) che sono emersi. Certo, ci vuole un po’ più di tempo della classica lezione letta sul libro (sempre Antinucci ci ricorda che la prevalenza del libro nel sistema scolastico moderno è dettata da un fattore di economicità) ma per le conoscenze fondamentali forse è meglio usare un po’ più di tempo ed essere sicuri che tutti le acquisiscano al meglio.
In questi giorni in cui gli insegnanti sono costretti a lavorare coi ragazzi a distanza può essere interessante sfruttare questa modalità didattica: si lancia una attività sfidante (che quindi – proprio perché sfidante – permette di attivare le competenze), si chiede ai ragazzi di lavorarci (senza per forza essere sempre tutti – docente e classe – on line in sincrono, e senza i vincoli dell’orario scolastico) e poi (qui può essere utile un momento di connessione sincrona di gruppo) si tirano le fila e si rilegge l’esperienza fatta. Sicuramente è meglio che passare 40 o 50 minuti riuniti in videoconferenza ad ascoltare il docente che legge la peste nei Promessi sposi (dove il problema – evidentemente – non è il brano del Manzoni ma l’uso non ottimale – ai limiti dello spreco – delle risorse tecnologiche disponibili).
immagine di copertina: pixabay.com | noxoss