Dopo gli ultimi tristi eventi del mondo della scuola che hanno ricevuto visibilità nelle pagine della cronaca nazionale (Ricoverato in neuropsichiatria il 16enne che ha aggredito la prof in classe, i sospetti sui voti: «Rischiava debito in italiano e storia») e complice il periodo di pagelle ed esami finali, si torna a parlare di autorità e potere nella scuola (si veda ad esempio l’editoriale di Antonio Polito Il caso di Abbiategrasso e i giovani. Rispettano/temono il potere. Non l’autorità data dal sapere )
Il tema del potere in ambito scolastico è sicuramente un elemento chiave ma – al contempo – è spesso trascurato o lasciato correre sotto traccia (forse perché si ritiene disdicevole parlare di potere in ambito educativo). Bene quindi che se ne parli, ma in un tema così delicato c’è sempre il rischio di aggiungere confusione invece di fare chiarezza.
La scuola, per tradizione, ha sempre usato dei dispositivi legati alla gestione del potere. La relazione docente-alunno da questo punto di vista è sempre stata fortemente asimmetrica. Come si diceva un tempo «è il docente che tiene il coltello dalla parte del manico»: decide tempi e modi di interrogazioni e verifiche, col sistema dei voti ha ampio margine di discrezionalità nel rendicontare il risultato di queste prove (margine che si riduce usando delle rubriche valutative – e forse è questo uno dei motivi inconsci per cui non sono molto gettonate) e infine ha potere di decidere se a fine anno – come gli “imprevisti” di un famoso gioco da tavolo – l’alunno può continuare il suo percorso o deve fermarsi un giro.
Gli alunni non sono stupidi, sanno che non possono competere con questo squilibrio. Già alle medie, i più svegli capiscono che la tattica migliore è sopportare pazientemente la situazione e cercare di uscirne in fretta. Da un punto di vista educativo il messaggio che mandiamo a questi ragazzi non è il massimo. A questo si aggiunge la questione dei genitori sempre più aggressivi (a parole, per vie legali o – purtroppo– talvolta anche in modi più rozzi e “fisici”) nei confronti della scuola e degli insegnanti. Ma forse questa deriva è ancora una conseguenza del potere gestito male. Se l’insegnante non è più riconosciuto come una autorità – o meglio ancora come una figura autorevole – è un attimo che il suo potere venga percepito come ingiusto e ingiustificato; e se un potere di questo tipo “attenta” alla vita e alla realizzazione della sua “creatura” il genitore si sente in dovere di difenderla.
Nel suo libro Né con le buone né con le cattive già nel 1989 Thomas Gordon, distinguendo le diverse forme di autorità, ne riconosceva quattro: l’autorità basata sulla competenza (Autorità C), l’autorità basata sulla posizione lavorativa (autorità L), l’autorità basata su contatti informali e intese (autorità I) e infine l’autorità basata sul potere (autorità P). Nel libro Gordon inizia la sua riflessione proprio da questa distinzione e dal riconoscere come i bambini quasi sempre non hanno problemi a riconoscere e rispettare l’autorità C o l’autorità L ma difficilmente con loro funziona l’autorità P che Gordon descrive così:
Questo è il tipo di autorità che si ha quasi sempre in mente quando si parla di genitori e insegnanti che hanno bisogno di autorità o che la esercitano, o quando si vorrebbe che i bambini “rispettassero” l’autorità degli adulti, o quando si parla di un “crollo dell’autorità”, o quando ci si lamenta del fatto che i bambini oggi si “ribellano contro l’autorità”.
Thomas Gordon, Né con le buone né con le cattive. Bambini e disciplina, edizioni la meridiana, Bari 2014, p.27
Varrebbe decisamente la pena di tornare a rileggere le riflessioni di Gordon su questo tema per avere chiare le categorie mentali utili a costruire una scuola migliore.
immagine di copertina di Vinzenz Lorenz M da Pixabay