Sembra che dopo il caffè di Gramellini di mercoledì 1 febbraio 2023 si sia improvvisamente risvegliato l’orgoglio dei diplomati al liceo classico.
Da diversi giorni la questione continua ad avere una discreta eco sui media e sui social, e forse è il caso di ragionarci un momento con calma.
È sicuramente lecito che ognuno sia orgoglioso del percorso di studi che ha fatto ai tempi (o che sta percorrendo adesso ), ma ci sono alcune domande che meritano una considerazione.
La prima è: «Esiste un tipo di scuola superiore che sia ontologicamente migliore delle altre?»
Dietro le quinte dei ragionamenti di molti fan del liceo classico sembra esserci proprio questa idea (di stampo gentiliano), spesso veicolata da affermazioni del tipo “il classico ti insegna a pensare” o “se hai fatto il classico sei pronto a svolgere qualsiasi lavoro perché ti allarga gli orizzonti”.
Purtroppo la risposta a questa domanda è: «No, non è così; non esiste un tipo di scuola che sia ontologicamente migliore di tutte le altre». Innanzitutto perché non esiste “il liceo classico”, ma esistono – in tutta Italia – le diverse scuole in cui è attivo quell’indirizzo di studi, e queste scuole non sono tutte uguali. Non lo sono perché – e forse dovremmo aggiungere per fortuna – non sono esattamente identiche le persone che insegnano in quelle scuole.
Potremmo poi chiederci: «Ma il liceo classico insegna davvero a pensare?» Ai tempi – da studente del liceo scientifico – ci ripetevano (ovviamente quelli del classico) che erano lo studio del latino e del greco che, con le strutture mentali necessarie per imparare queste lingue, insegnavano a pensare. Non ci credevamo allora e non ci credo oggi. Il latino e il greco attivano sicuramente alcune attività logiche, ma non insegnano a pensare tout court. Se ci riflettiamo bene, anche affrontare un problema di matematica, procedere in un esperimento scientifico, progettare un allestimento di interni o aggiustare un motore (solo per fare alcuni esempi) possono insegnare a pensare. Badate bene, quel “possono” è fondamentale. Non è l’attività in sé che insegna a pensare; sono l’accompagnamento e il tempo dedicato alla riflessione su quello che si sta facendo che permettono di trasformare un “fare qualcosa” in una “esperienza” (come insegnava Dewey) che contribuisce – tra le altre cose – a sviluppare la capacità di pensare e affrontare situazioni complesse (capacità che oggi spesso indichiamo col termine di problem solving).
E non ditemi che si impara a pensare perché si studia la filosofia, perché, nella maggior parte dei casi, in Italia – nella scuola superiore così come all’università – i percorsi di filosofia non insegnano a filosofare, ma si limitano a proporre la storia della filosofia. E non è automatico che aver letto – o studiato – Socrate e Platone, ipso facto renda capaci di pensare come loro. È un po’ come pretendere di aver imparato a sciare solo perché si sono guardate tante gare di questa disciplina e si è studiato attentamente come sono progettati gli attrezzi usati in questo sport. Certo, può essere utile e stimolante, ma senza la pratica (dello sci come del pensare) questo non basta.
Il liceo classico apre mille porte e prepara a ogni lavoro? Rispondo in modo provocatorio: quando avete bisogno dell’idraulico o dell’elettricista, vi mettete a verificare se ha fatto il liceo? O volete “semplicemente” un bravo artigiano capace di fare bene e coscienziosamente il proprio lavoro? È vero che “il liceo classico apre a molti lavori”, ma spesso questa frase lascia intendere che si parli di lavori di “alto livello” (manager e simili) dimenticando che tutte le professioni (anche quelle artigianali e manuali) hanno la loro dignità e la loro importanza nella nostra società; e non per tutte è necessario arrivare ad avere una licenza classica o una laurea.
Mi ha colpito – tra le altre – questa affermazione di Gramellini:
il classico non ti spiega «come» funziona il mondo, ma in compenso ti abitua a chiederti «perché». A capire le cause delle cose, a snasare il conformismo degli anticonformisti, ad addestrare i sensi e la mente per riuscire a cogliere la bellezza in un tramonto o anche solo in una vetrina.»
Credo a quello che dice, ma sono convinto che quello che ci racconta Gramellini sia vero perché i docenti che ha incontrato lo hanno aiutato a sviluppare questa capacità; non è prerogativa del classico in sé e per sé, è, semmai, una prerogativa della scuola “fatta bene”.
Temo ci sia, nella visione nostalgica di alcuni, un presupposto sbagliato. C’è stato un tempo in cui se volevi proseguire negli studi e frequentare l’università dovevi avere un diploma liceale (e meglio se del classico). Ma oggi non è così. Oggi ci si può tranquillamente diplomare in ragioneria, iscriversi a una facoltà umanistica e magari poi conseguire un master. O ci si può diplomare in una scuola tecnica e poi iscriversi all’università perché nel frattempo si sono scoperti una professione o un interesse che sono maturati con calma nel tempo. In una società in cui la formazione continua è indispensabile non ha senso pensare che ci siano vincoli rigidi sulla formazione iniziale. Certo, una preparazione liceale può aiutare negli studi universitari futuri, ma non è un vincolo necessario.
Cosa dire poi della preoccupazione perché «appena il 5,8% degli alunni di terza media che proseguiranno gli studi» frequenterà il classico? Dovremmo innanzitutto tranquillizzarci perché non c’è una “distribuzione perfetta” degli studenti nella scelta della scuola superiore (qualcosa del tipo 20% al classico, 15% allo scientifico e via così…). Non avrebbe senso forzare la mano a uno studente a iscriversi al classico (o a un altro tipo di scuola) solo perché le quote “standard” prevedono che almeno una certa percentuale di studenti lo frequenti.
Ultimo aspetto che merita attenzione è la questione relativa alla difficoltà di scegliere il percorso giusto per il proprio futuro. Condivido la riflessione di Gramellini sul fatto che difficilmente un ragazzo a 13/14 anni ha chiaro il suo futuro. Ma la soluzione non è iscriversi al classico (per poi magari scoprire dopo uno o due anni di “agonia” che non era la strada migliore e cominciare un valzer di cambi di scuola). La soluzione sarebbe molto semplice: potenziare l’orientamento nella secondaria di primo grado (le medie). Attenzione, non intendo dire di aumentare gli incontri di orientamento che, anche quando sono fatti bene, rischiano di lasciare il tempo che trovano se sono una parentesi scolastica nella vita dei ragazzi. Intendo semmai ricollegare scuola e vita, per far sì che in questo segmento di scuola i ragazzi possano conoscere più da vicino il mondo in cui vivono e vedere stimolati i loro interessi. Solo così un ragazzo può scegliere con più lungimiranza in che tipo di studi vuole investire gli anni seguenti. Perché se è vero che la scuola non serve “solo” a trovare lavoro, dobbiamo dire che serve “anche” a trovare lavoro, soprattutto se – avendo a mente cosa dice la Costituzione – il lavoro non è solo lo strumento per portare a casa lo stipendio, ma è anche un modo per realizzarsi e dare il proprio contributo al miglioramento della società.
Chiudo con una riflessione per gli addetti ai lavori. Forse ci avevano visto giusto i membri della commissione Brocca che, nella proposta di riforma della scuola superiore, avevano spinto per valorizzare nel primo biennio gli elementi comuni dei diversi indirizzi. Non un vero e proprio biennio comune, ma un periodo di studi che permette – a prescindere dalla scelta di indirizzo – di sviluppare una robusta conoscenza di base legata anche alle discipline che poi non caratterizzeranno l’indirizzo. Questa impostazione avrebbe diminuito i rischi di avere esperti di un campo che risultano totalmente ignoranti di altri ambiti del sapere (dando, ad esempio, anche al classico una buona preparazione scientifica). E – forse indirettamente – reso meno doloroso il passaggio ad altri indirizzi nel caso – non raro – di una scelta avventata dopo la “terza media”.
immagine di copertina di morhamedufmg da Pixabay