Le competenze nella scuola italiana


Spesso, parlando di scuola, si indica come “novità” degli ultimi anni la didattica per competenze. In realtà non è proprio così. Anche se è vero che negli ultimi decenni la scuola italiana è stata più centrata sulle conoscenze e sulle abilità e solo negli ultimi anni è emerso con forza il discorso attorno alle competenze, non è qualcosa di totalmente “nuovo” nella scuola italiana.

Ricordo, in proposito, che qualche anno fa, in uno dei primi corsi per insegnanti che tenevo sulla didattica per competenze, una docente – con una buona esperienza di scuola alle spalle – dopo una prima presentazione dei capisaldi della didattica per competenze (in particolare la necessità, in un compito di realtà, di arrivare alla realizzazione di un prodotto per riconoscere le competenze messe in atto) mi disse qualcosa del tipo “ma noi queste cose a scuola una volta le facevamo già”. È perfettamente vero. La didattica per competenze, in realtà non è una novità per la scuola italiana. E per trovarne la traccia forse più significativa dobbiamo ritornare alla fine della Seconda guerra mondiale.

Devo ringraziare Enrico Salati (che è stato nella sua lunga carriera insegnante, direttore didattico, ricercatore, docente di didattica in università) per l’indicazione di qualche giorno fa: discutendo di curricolo didattico mi ha suggerito di rileggere i programmi scolastici del 1945.

Avevo in mente la storia di questo documento ma non mi ero mai preso del tempo per cercarlo e leggerlo con attenzione.

Per chi non ha in mente la vicenda la riportiamo brevemente. Alla fine della Seconda guerra mondiale si poneva in Italia il problema di riorganizzare la scuola elementare liberandola dalle incrostazioni della propaganda fascista. Nell’attività di riorganizzazione della scuola italiana e di riscrittura dei programmi (che porterà proprio al Decreto Luogoteneziale 24 maggio 1945, n. 459) viene coinvolto il pedagogista americano Carleton W. Washburne.

Leggendo bene questi programmi (trovate il testo integrale scaricabile nella sezione documenti di questo sito) si coglie come la scuola proposta fosse in linea con le teorie più avanzate dell’attivismo pedagogico (Washburne ben conosceva Dewey e le sue idee pedagogiche) e si intuisce come le stesse Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione seguano la stessa ispirazione.

Mi sembra utile, in proposito, evidenziare alcuni passaggi dei programmi del 1945 (trovate il testo completo nell’area documenti).

Innanzitutto nella premessa si intuisce quanto la scuola elementare debba “volare alto”:

Condizione essenziale di tale rinascita [della vita nazionale] è la formazione di una coscienza operante, che associ finalmente le forze della cultura a quelle del lavoro in modo che la cultura non si risolva in sterile apprendimento di nozioni e il lavoro non sia soltanto inconsapevole espressione di forza fisica. […] La scuola elementare, pertanto, non dovrà limitarsi a combattere solo l’analfabetismo strumentale, mentre assai più pernicioso è l’analfabetismo spirituale che si manifesta come immaturità civile, impreparazione alla vita politica, empirismo nel campo del lavoro, insensibilità verso i problemi sociali in genere. Essa ha il compito di combattere anche questa grave forma d’ignoranza, educando nel fanciullo, l’uomo e il cittadino.
[…]
Le avvertenze che precedono ciascuna delle materie d’insegnamento offrono libero campo di studio perché non vi si consigliano metodi particolari, né vi si danno minute prescrizioni. L’insegnante potrà seguire vie diverse da quelle indicate, purché riesca a dare quei risultati che si attendono dalla sua azione educativa. Non fallirà lo scopo se, considerando obiettivamente le vitali necessità del popolo nostro, saprà intendere la intima connessione esistente tra i problemi della cultura e quelli del lavoro, e saprà trarre vigore d’ispirazione a contatto dei grandi spiriti dell’umanità.

Sembra, a leggerla con attenzione, quasi una anticipazione dell’autonomia scolastica nella strutturazione del curricolo.

Pensando alle questioni legate al passaggio da cittadinanza e costituzione a educazione civica (passaggio di cui, presi giustamente dall’emergenza covid, non si parla più, ma che non andrebbe dimenticato perché richiede una attenta progettazione didattica) è interessante leggere le avvertenze alla materia educazione morale, civile e fisica:

La scuola, ordinata secondo il sistema razionale della libertà disciplinata, deve svegliare nei fanciulli il senso individuale della responsabilità e destare in essi il bisogno dell’ordine, del rispetto, dell’aiuto reciproco: in breve, delle virtù civili, sociali e morali. Sarà per questo utilissimo promuovere la spontanea e diretta collaborazione degli scolari nel governo della classe, affidando a gruppi, scelti preferibilmente dagli stessi discepoli, incarichi speciali di pulizia, di ordine e di organizzazione, o lasciando la scolaresca libera di prendere decisioni in merito, anche attraverso le forme del referendum e della vera e propria iniziativa (per esempio: proporre l’attuazione di un particolare lavoro scolastico). L’insegnante dovrà incoraggiare la discussione e orientarla.
Si prepari il fanciullo a tali forme elementari di autogoverno, addestrandolo alla comprensione dei propri doveri e diritti, in rapporto alle finalità del gruppo a cui appartiene. Sarà così possibile indurlo ad agire non in base a ordini, ma in forza di un convincimento di natura sociale.
[…]
Dalla sua esperienza diretta, rafforzata da quella semplice forma di autogoverno e di collaborazione, a cui si accenna nel programma, e dalle letture di storia, il fanciullo desuma la necessità delle leggi e delle istituzioni che nello Stato tutelano la libertà di ciascuno e di tutti, rendendo così possibile la civile convivenza.
Dall’osservazione delle forme di vita amministrativa locale egli salirà gradatamente, per analogia, a quelle provinciali e nazionali di più vasto raggio e sarà indotto a considerare i rapporti di solidarietà o di collaborazione tra i popoli, valicando con animo sempre più ampio, sereno e scevro da preconcetti di gretto nazionalismo, i confini del proprio Paese.

Interessante anche la sottolineatura del valore del lavoro, da inserire a scuola con precise attenzioni:

Il lavoro pertanto abbia sempre nella scuola valore educativo: educhi cioè l’occhio, la mano, il gusto e la immaginazione, dando nello stesso tempo un razionale sfogo a quell’amore del fare, del costruire da sé, del congegnare con pochi mezzi che è proprio del fanciullo, e faccia sentire la dignità dell’umana fatica anche nelle sue più modeste manifestazioni.

Interessante soprattutto il passaggio finale delle avvertenze rispetto alla materia lavoro:

Si evitino le mostre; i lavori eseguiti siano poi destinati per il loro uso pratico a scopi di assistenza sociale.

Che in fondo ben si collega con l’idea di compito di realtà di cui parliamo oggi: salvo i casi in cui la mostra è lo scopo dell’attività (perché si è scelto di lavorare sulle competenze comunicative necessarie ad allestirla) non si lavora per esibire i propri prodotti (e implicitamente chiedere agli spettatori di confrontarli tra loro per vedere chi è stato il più bravo) ma per fare qualcosa di utile alla società.

Infine (non perché non ci siano altre sottolineature interessanti ma per non dilungarci troppo) uno sguardo alla didattica della lingua italiana. Rispetto alle annose questioni su come insegnare la grammatica, i programmi del 1945 erano molto ‘avanti’ (da un punto di vista didattico) e molto chiari nella spiegazione:

La lingua, come è stato detto, s’impara parlando, leggendo, scrivendo. Ma chi parla, legge e scrive senza conoscere la grammatica è come colui che suona uno strumento ad orecchio. Non si mortifichino gli scolari con le noiosissime analisi grammaticali e logiche, coi paradigmi, le definizioni, le suddivisioni, ecc.; ma nemmeno, cadendo nell’eccesso opposto, si metta al bando la conoscenza della grammatica che dà consapevolezza nell’uso della lingua. Il maestro colga via via le occasioni per impartire le più comuni cognizioni grammaticali, per salire a poco a poco all’insegnamento ordinato della materia. Si stabiliscano gradatamente, in modo intuitivo, desumendoli dalla lingua parlata, i rapporti fra gli elementi della morfologia e quelli fondamentali della sintassi. L’uso vivo della lingua stia a base degli esercizi, che così riusciranno graditi e proficui. La nostra sia una grammatica di idee e non di parole. Il contenuto di ogni esercizio abbia un significato logico che scaturisca dallo sviluppo naturale del pensiero e non sia un noioso tormento artificioso e meccanico, come avviene comunemente, specie nella arida coniugazione dei verbi.

Sembra proprio che negli anni, ci siamo persi un po’ per strada, inseguendo altre idee e altre priorità. Abbiamo forse preferito alunni obbedienti e passivi ad alunni attivi, abbiamo focalizzato la nostra attenzione (e tarato di conseguenza i criteri di valutazione) sulle conoscenze e sulle abilità (lasciando da parte le competenze).
Ma adesso, finalmente siamo ritornati a dirci che la scuola deve mettere al centro il bambino, i suoi interessi, per stimolarlo a essere protagonista di un percorso di crescita che non è solo misurato con le conoscenze che accumula ma è indirizzato all’acquisizione di una capacità di agire in maniera competente che gli permetterà di affrontare, nella vita, il conosciuto ma soprattutto quello che ancora nemmeno riusciamo a immaginare.

Nota
Per approfondire l’opera di Washburne in Italia è utile la lettura del saggio  Pedagogia e didattica delle scuole nuove nei programmi nazionali della scuola elementare del 1945 di Ornella Gelmi sulla rivista Formazione, lavoro, persona del Cqia (Centro per la Qualità dell’Insegnamento e dell’Apprendimento) dell’Università di Bergamo


Immagine di copertina allegato al DL 24 maggio 1945, n. 459