Leggendo il racconto di come la dottoressa Annalisa Malara ha individuato, il 21 febbraio, il “paziente uno” nell’ospedale di Codogno (trovi qui l’articolo), mi è tornato in mente – non vi sembri irriverente – un personaggio di Colorado Cafè: vi ricordate di Pino La Lavatrice? In particolare ripensavo al suo tormentone: “Tu mi dici quello che devo fare… e io lo faccio!”
Ecco, la dottoressa Malara non ha seguito questa “teoria” che, purtroppo, sembra essere molto diffusa. I protocolli o le indicazioni che tutti noi riceviamo nel nostro lavoro, dovrebbero essere uno strumento per aiutarci a svolgere al meglio le nostre attività. Ma, non dobbiamo dimenticarci, che questo avviene a una condizione: che teniamo il cervello attivo. Che in ogni situazione ci domandiamo il perché di quello che succede intorno a noi e lo confrontiamo con le indicazioni che riceviamo.
Se salta questa abitudine a ragionare continuamente si rischia il caos (e ben lo vediamo in questi giorni).
C’è un aneddoto che mi sembra ben rappresentare la questione. Avevo bisogno di una ricetta e sono andato dal medico di base poco prima dei decreti di lock-down. Era già arrivato in Italia il coronavirus, i supermercati cominciavano a mettere le colonnine col dispenser di disinfettante ma il medico non aveva l’ombra di una mascherina. Non perché sia un cattivo medico, molto più probabilmente, non aveva ancora ricevuto nessuna direttiva che glielo imponesse. Ecco, il rischio della passività è questo: si spegne il cervello e si fanno le cose solo se qualcuno ci impone di farle.
Purtroppo questa “passività” è spesso frutto dell’istruzione scolastica. Nella scuola “tradizionale” – quella della sequenza lezione-studio-interrogazione – il curricolo implicito tende a insegnare la passività. Di fronte al docente – che rappresenta l’autorità – la regola che sembra portare al successo è: “fai quello che ti dice e non avrai problemi”. Il corollario è: “non pensare con la tua testa, perché rischi solo di sbagliare e di avere problemi”.
Per questo è importante tornare a leggere quello che scrivevano i padri della pedagogia attiva (Dewey, Washburne, Freinet solo per fare alcuni nomi) e poi provare a metterlo in pratica come hanno fatto tanti insegnanti (pensate ad Alberto Manzi, Mario Lodi…). Più ragazzi cresceranno abituati a ragionare con la propria testa, a osservare il mondo intorno a loro, a farsi delle domande, a darsi delle ipotesi di risposta con cui sperimentare e cercare soluzioni e più avremo, domani, adulti pronti ad affrontare ogni situazione. In fondo il senso della didattica per competenze è tutto qui: se sei abile sei “addestrato” a risolvere problemi e affrontare situazioni che già conosci, se sei competente hai gli strumenti per affrontare anche situazioni a cui nessuno ti aveva preparato.
Oggi, che siamo alle prese con una situazione totalmente imprevedibile, ci accorgiamo di quanto sono necessarie le competenze!
immagine di copertina di Anna Prosekova da Pixabay